Islanda, quando il popolo sconfigge l'economia globale
L'hanno definita una 'rivoluzione silenziosa' quella che ha portato l'Islanda alla riappropriazione dei propri diritti. Sconfitti gli interessi economici di Inghilterra ed Olanda e le pressioni dell'intero sistema finanziario internazionale, gli islandesi hanno nazionalizzato le banche e avviato un processo di democrazia diretta e partecipata che ha portato a stilare una nuova Costituzione.
di Andrea Degl'Innocenti - 13 Luglio 2011
Una
rivoluzione silenziosa è quella che ha portato gli islandesi a
ribellarsi ai meccanismi della finanza globale e a redigere un'altra
costituzione
Oggi vogliamo raccontarvi una storia, il perché
lo si capirà dopo. Di quelle storie che nessuno racconta a gran voce,
che vengono piuttosto sussurrate di bocca in orecchio, al massimo
narrate davanti ad una tavola imbandita o inviate per e-mail ai propri
amici. È la storia di una delle nazioni più ricche al mondo, che ha affrontato la crisi peggiore mai piombata addosso ad un paese industrializzato e ne è uscita nel migliore dei modi.
L'Islanda.
Già, proprio quel paese che in pochi sanno dove stia esattamente, noto
alla cronaca per vulcani dai nomi impronunciabili che con i loro sbuffi
bianchi sono in grado di congelare il traffico aereo di un intero
emisfero, ha dato il via ad un'eruzione ben più significativa, seppur
molto meno conosciuta. Un'esplosione democratica che terrorizza i
poteri economici e le banche di tutto il mondo, che porta con se
messaggi rivoluzionari: di democrazia diretta, autodeterminazione
finanziaria, annullamento del sistema del debito.
Ma
procediamo con ordine. L'Islanda è un'isola di sole di 320mila anime –
il paese europeo meno popolato se si escludono i micro-stati – privo di
esercito. Una città come Bari spalmata su un territorio vasto 100mila chilometri quadrati, un terzo dell'intera Italia, situato un poco a sud dell'immensa Groenlandia.
15
anni di crescita economica avevano fatto dell'Islanda uno dei paesi più
ricchi del mondo. Ma su quali basi poggiava questa ricchezza? Il
modello di 'neoliberismo puro' applicato nel paese che ne aveva
consentito il rapido sviluppo avrebbe ben presto presentato il conto.
Nel 2003 tutte le banche del paese erano state privatizzate
completamente. Da allora esse avevano fatto di tutto per attirare gli investimenti stranieri,
adottando la tecnica dei conti online, che riducevano al minimo i costi
di gestione e permettevano di applicare tassi di interesse piuttosto
alti. IceSave, si chiamava il conto, una sorta del nostrano Conto
Arancio. Moltissimi stranieri, soprattutto inglesi e olandesi vi avevano
depositato i propri risparmi.
La Landsbanki fu la prima banca a crollare e ad essere nazionalizzata in seguito al tracollo del conto IceSave
Così,
se da un lato crescevano gli investimenti, dall'altro aumentava il
debito estero delle stesse banche. Nel 2003 era pari al 200 per cento
del prodotto interno lordo islandese, quattro anni dopo, nel 2007, era
arrivato al 900 per cento. A dare il colpo definitivo ci pensò la crisi
dei mercati finanziari del 2008. Le tre principali banche del paese, la
Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir, caddero in fallimento e vennero
nazionalizzate; il crollo della corona sull'euro – che perse in
breve l'85 per cento – non fece altro che decuplicare l'entità del loro
debito insoluto. Alla fine dell'anno il paese venne dichiarato in
bancarotta.
Il Primo Ministro conservatore Geir Haarde,
alla guida della coalizione Social-Democratica che governava il paese,
chiese l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, che accordò
all'Islanda un prestito di 2 miliardi e 100 milioni di dollari, cui si
aggiunsero altri 2 miliardi e mezzo da parte di alcuni Paesi nordici.
Intanto, le proteste ed il malcontento della popolazione aumentavano.
A gennaio, un presidio prolungato davanti al parlamento portò alle dimissioni del governo. Nel frattempo i potentati finanziari internazionali
spingevano perché fossero adottate misure drastiche. Il Fondo Monetario
Internazionale e l'Unione Europea proponevano allo stato islandese di farsi carico del debito insoluto delle banche, socializzandolo. Vale a
dire spalmandolo sulla popolazione. Era l'unico modo, a detta loro, per
riuscire a rimborsare il debito ai creditori, in particolar modo a
Olanda ed Inghilterra, che già si erano fatti carico di rimborsare i
propri cittadini.
Il nuovo governo, eletto con elezioni
anticipate ad aprile 2009, era una coalizione di sinistra che, pur
condannando il modello neoliberista fin lì prevalente, cedette da subito
alle richieste della comunità economica internazionale: con una
apposita manovra di salvataggio venne proposta la restituzione
dei debiti attraverso il pagamento di 3 miliardi e mezzo di euro
complessivi, suddivisi fra tutte le famiglie islandesi lungo un periodo
di 15 anni e con un interesse del 5,5 per cento.
I cittadini islandesi non erano disposti ad accettare le misure imposte per il pagamento del debito.
Si trattava di circa 100 euro al mese a persona,
che ogni cittadino della nazione avrebbe dovuto pagare per 15 anni; un
totale di 18mila euro a testa per risarcire un debito contratto da un
privato nei confronti di altri privati. Einars Már Gudmundsson, un
romanziere islandese, ha recentemente affermato che quando avvenne il
crack, “gli utili [delle banche, ndr] sono stati privatizzati ma le perdite sono state nazionalizzate”. Per i cittadini d'Islanda era decisamente troppo.
Fu
qui che qualcosa si ruppe. E qualcos'altro invece si riaggiustò. Si
ruppe l'idea che il debito fosse un'entità sovrana, in nome della quale
era sacrificabile un'intera nazione. Che i cittadini dovessero pagare
per gli errori commessi da un manipoli di banchieri e finanzieri. Si
riaggiustò d'un tratto il rapporto con le istituzioni, che di fronte alla protesta generalizzata decisero finalmente di stare dalla parte di coloro che erano tenuti a rappresentare.
Accadde che il capo dello Stato, Ólafur Ragnar Grímsson,
si rifiutò di ratificare la legge che faceva ricadere tutto il peso
della crisi sulle spalle dei cittadini e indisse, su richiesta di questi
ultimi, un referendum, di modo che questi si potessero esprimere.
La
comunità internazionale aumentò allora la propria pressione sullo stato
islandese. Olanda ed Inghilterra minacciarono pesanti ritorsioni,
arrivando a paventare l'isolamento dell'Islanda. I grandi banchieri di
queste due nazioni usarono il loro potere ricattare il popolo che si
apprestava a votare. Nel caso in cui il referendum fosse passato, si
diceva, verrà impedito ogni aiuto da parte del Fmi, bloccato il prestito
precedentemente concesso. Il governo inglese arrivò a dichiarare che
avrebbe adottato contro l'Islanda le classiche misure antiterrorismo:
il congelamento dei risparmi e dei conti in banca degli islandesi. “Ci è
stato detto che se rifiutiamo le condizioni, saremo la Cuba del nord –
ha continuato Grímsson nell'intervista - ma se accettiamo, saremo
l’Haiti del nord”.
I Cittadini islandesi hanno votato per eleggere i membri del Consiglio costituente
A
marzo 2010, il referendum venne stravinto, con il 93 per cento delle
preferenze, da chi sosteneva che il debito non dovesse essere pagato dai
cittadini. Le ritorsioni non si fecero attendere: il Fmi congelò
immediatamente il prestito concesso. Ma la rivoluzione non si fermò. Nel
frattempo, infatti, il governo – incalzato dalla folla inferocita – si
era mosso per indagare le responsabilità civili e penali del crollo
finanziario. L'Interpool emise un ordine internazionale di arresto
contro l’ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson. Gli altri banchieri implicati nella vicenda abbandonarono in fretta l'Islanda.
In
questo clima concitato si decise di creare ex novo una costituzione
islandese, che sottraesse il paese allo strapotere dei banchieri
internazionali e del denaro virtuale. Quella vecchia risaliva a quando
il paese aveva ottenuto l'indipendenza dalla Danimarca, ed era
praticamente identica a quella danese eccezion fatta per degli
aggiustamenti marginali (come inserire la parola 'presidente' al posto
di 're').
Per la nuova carta si scelse un metodo innovativo. Venne eletta un'assemblea costituente composta da 25 cittadini.
Questi furono scelti, tramite regolari elezioni, da una base di 522 che
avevano presentato la candidatura. Per candidarsi era necessario essere
maggiorenni, avere l'appoggio di almeno 30 persone ed essere liberi
dalla tessera di un qualsiasi partito.
Ma la vera novità è
stato il modo in cui è stata redatta la magna charta. "Io credo - ha
detto Thorvaldur Gylfason, un membro del Consiglio costituente - che
questa sia la prima volta in cui una costituzione viene abbozzata
principalmente in Internet".
Chiunque poteva seguire i progressi della costituzione davanti ai propri occhi. Le riunioni del Consiglio erano trasmesse in streaming
online e chiunque poteva commentare le bozze e lanciare da casa le
proprie proposte. Veniva così ribaltato il concetto per cui le basi di
una nazione vanno poste in stanze buie e segrete, per mano di pochi
saggi. La costituzione scaturita da questo processo partecipato di
democrazia diretta verrà sottoposta al vaglio del parlamento
immediatamente dopo le prossime elezioni.
Ed eccoci così
arrivati ad oggi. Con l'Islanda che si sta riprendendo dalla terribile
crisi economica e lo sta facendo in modo del tutto opposto a quello che
viene generalmente propagandato come inevitabile. Niente
salvataggi da parte di Bce o Fmi, niente cessione della propria
sovranità a nazioni straniere, ma piuttosto un percorso di
riappropriazione dei diritti e della partecipazione.
Lo
sappiano i cittadini greci, cui è stato detto che la svendita del
settore pubblico era l'unica soluzione. E lo tengano a mente anche
quelli portoghesi, spagnoli ed italiani. In Islanda è stato riaffermato
un principio fondamentale: è la volontà del popolo sovrano a
determinare le sorti di una nazione, e questa deve prevalere su
qualsiasi accordo o pretesa internazionale. Per questo nessuno racconta a
gran voce la storia islandese. Cosa accadrebbe se lo scoprissero tutti?